Apriamo il Dibattito sulle Ragioni della Patrimoniale

Il principio irrinunciabile, quando si parla di tasse dovrebbe essere sempre lo stesso: le tasse vanno pagate in forma progressiva a secondo del reddito e del patrimonio, con gli ovvi aggiustamenti di equità e ragionevolezza.

Essere proprietari di un mini locale come prima casa ha un significato, mentre essere proprietari di una villa del Palladio da 80 milioni di euro, come prima casa, ne ha sicuramente un'altro.

Pertanto l'esenzione dell'ICI dalla prima casa dovrebbe in ogni caso rispondere ad equità e giustizia.  Fare le nostre valutazioni sull'opportunità o non opportunità d'una tasse deve sempre essere visto nell'insieme dei costi e vantaggi per il cittadino.

Il fattore che l'ICI era la fonte più importante delle entrate di un comune è veritiero quanto l'enorme spreco fatto proprio dai comuni in questi anni in modo particolare per soddisfare le varie dinamiche e "bacini" di voti all'interno stesso del territorio comunale.
L'esempio lampante è la Comunità Montana Feltrina.
Nella CMF vivono circa 60.000 persone (un quartiere di Padova o di Mestre) amministrate da 13 comuni nei quali ci sono: 13 municipi, 13 sindaci, 13 consigli comunali,  13 zone
industriali,  13 palestre, 13 biblioteche ecc. pertanto è facile comprendere la complessità  economica-finanziaria di gestire una tale "rete" di servizi e la necessità di rivalutare i modi e le forme, per non dare dei servizi "tanto per darli" ma puntare prima di tutto su un nuovo modo di amministrare e di organizzare i beni comuni.

Di seguito l'interrvento di SPI CGIL


 

Le Ragioni della Patrimoniale 

L'imposta sulla proprietà degli immobili, che già esiste nella maggior parte dei paesi europei, deve entrare stabilmente nel sistema fiscale italiano, sia per una ragione di equità sociale che per una ragione economica DI GAETANO LAMANNA
di Gaetano Lamanna*

I
Gli enti locali vivono una fase di sofferenza, come mai prima d’ora. Sono stati messi di fronte all’alternativa secca di aumentare le tasse (addizionali Irpef) e le tariffe locali o restringere ulteriormente la quantità e la qualità dei servizi erogati. Gli effetti negativi di questa situazione si stanno già manifestando sui cittadini e sul welfare locale.

La questione decisiva è quella delle risorse. Chi paga. Come si risponde alla crisi della finanza pubblica in una logica di equità (pur nei sacrifici). Questo è il punto e questo può essere il filo rosso che lega la protesta giovanile e la lotta dei pensionati e dei lavoratori dipendenti. L’Italia è un paese ricco, ma con forti diseguaglianze al suo interno. La ricchezza privata (mobiliare e immobiliare che, ricordiamolo, è pari a sei volte il Pil) è molto concentrata e distribuita in modo irregolare e disomogeneo sia a livello sociale che sul piano territoriale. Ecco perché, in una logica di equità, gli enti locali devono ritrovare nella ricchezza immobiliare la principale base imponibile delle proprie entrate fiscali.

Occorre innanzitutto rovesciare la logica della manovra Tremonti che ha dato il via libera all’aumento ulteriore delle addizionali Irpef comunali su redditi da lavoro dipendente e da pensione, sostanzialmente fermi da 10 anni senza toccare, invece, la tassazione sugli immobili che, nel decennio 2000-2010, hanno registrato incrementi di prezzo straordinari (in media del 100%).

Ciò non significa che gli italiani hanno rinunciato ad acquistare un’abitazione. Hanno, però, acquistato a prezzi più alti e indebitandosi sempre di più e più a lungo. A oggi il valore complessivo dei mutui contratti dalle famiglie per la casa ammonta a 350 miliardi di euro e interessa il 16,7 delle famiglie italiane. Dunque, 350 miliardi transitati dal lavoro alla rendita immobiliare e finanziaria.

Questo esempio, da un lato, da’ la misura di ciò che significa l’”incremento della rendita urbana” nel nostro paese e, dall’altro, descrive bene uno dei meccanismi di ”finanziarizzazione dell’economia”. Nel caso italiano, poi, l’investimento nel mattone – per gli alti margini di guadagno assicurati – ha finito con lo spiazzare la convenienza a investire nei settori produttivi più innovativi. Ed evito, per brevità di ragionamento, alcune considerazioni sugli effetti distorsivi che tali processi hanno sui consumi delle famiglie (il mercato del lusso che non conosce crisi e, d’altra parte, i consumi di massa che invece ristagnano).
[1] [2] Siamo dunque un paese fortemente patrimonializzato. Circa l’80% delle famiglie ha un’abitazione in proprietà. Ma la ricchezza immobiliare in Italia è anche molto concentrata. Il 5% dei proprietari più ricchi possiede il 25% del patrimonio (dati della Banca d’Italia). Eppure, se guardiamo al gettito fiscale, mentre l’Irpef rappresenta il 15% del Pil e l’Iva il 14%, la tassazione dei patrimoni immobiliari in rapporto al Pil è solo un misero 0,2% (Banca d’Italia).

L’imposta sulla proprietà degli immobili, che già esiste nella maggior parte dei paesi europei, deve dunque entrare stabilmente nel sistema fiscale italiano, sia per una ragione di equità sociale (far gravare le imposte su chi ha di più) che per una ragione economica (spostare una parte di tassazione da “chi produce” alla ricchezza improduttiva o, se si vuole, dalle persone alle cose). Naturalmente tale operazione va fatta prevedendo una soglia di esenzione per chi ha una sola abitazione. Infatti, come sappiamo, molte famiglie (pensionati, lavoratori dipendenti, giovani, famiglie monoparentali) sono proprietari di casa ma hanno un reddito basso (rich house, cash poor). Ai tempi del governo Prodi (fino al 2008), con un abbattimento dell’imposta di 300 euro, ben il 40% delle famiglie italiane non pagava l’Ici.

Basterebbe dunque ripristinare un meccanismo di tutela solo per chi è proprietario dell’abitazione principale – come era prima che Berlusconi estendesse la cancellazione dell’Ici anche ai proprietari più ricchi - e, contemporaneamente, procedere alla revisione delle rendite catastali, misura che avrebbe dei riflessi positivi non solo sull’Ici, ma anche su tutte le entrate derivanti dalla tassazione delle compravendite immobiliari (imposta di registro, catastale, ipotecaria, ecc.). Il processo di riforma del Catasto, avviato nel 2006 è stato di fatto bloccato dal governo Berlusconi. E, come sostiene Banca d’Italia, La mancata revisione dei valori catastali, ha determinato una crescente divaricazione tra patrimonio abitativo dichiarato e ricchezza immobiliare effettiva. Il valore di mercato del patrimonio abitativo è, cioè, da 3 a 4 volte superiore a quello dell’imponibile fiscale. Si tratta, quindi, di avvicinare quanto più possibile i due valori. Le casse dei Comuni, oggi vuote, potrebbero incamerare circa 20 miliardi in più all’anno (dati dell’Agenzia del territorio). E’ questa l’alternativa concreta alle addizionali Irpef e agli eventuali tagli lineari alle detrazioni fiscali, che penalizzerebbero ulteriormente lavoratori dipendenti e pensionati.

Il ritorno all’Ici e l’aggiornamento del Catasto sono la strada maestra per dare piena autonomia impositiva e finanziaria ai Comuni e per attuare nella maniera più seria un pezzo fondamentale di federalismo fiscale. E’ questo il modo, inoltre, per intercettare a beneficio dei cittadini una parte della rendita urbana. L’imposta sulla proprietà immobiliare è stata da sempre concepita come il corrispettivo a quello che i Comuni spendono per i servizi e le infrastrutture. In tutti gli altri paesi europei è così, ma in Italia, per la miopia del governo di centrodestra, i proprietari hanno potuto incamerare tutto l’aumento di valore immobiliare (ottenuto grazie agli interventi pubblici nei diversi contesti urbani) senza dare in cambio nulla. Si spiega così, infine, la perversa logica per cui, pure in territori caratterizzati da una straordinaria ricchezza privata (non solo immobiliare), le risorse pubbliche scarseggino tanto. E le amministrazioni locali, per far cassa, continuano ad adottare varianti urbanistiche e a rilasciare permessi di costruzione in cambio di oneri di urbanizzazione. Diventando, più o meno consapevolmente, responsabili di una politica che ha avuto (ed ha) effetti devastanti sul’assetto del territorio, sull’ambiente e sulla qualità della vita.

Le città producono l’80% del Pil, ma in esse si annida anche gran parte di economia sommersa, illegale o criminale. Il fenomeno degli affitti in nero e quello del lavoro non dichiarato (edili, colf, badanti, giovani) è un altro capitolo dell’evasione fiscale e contributiva. I patti antievasione, per essere efficaci e produrre risultati, devono tenere conto delle specificità locali. Sarà molto importante orientare le misure che amministrazioni pubbliche, consigli tributari locali, in collaborazione con l’Agenzia delle entrate, dovranno portare avanti. L’importanza dei patti sta inoltre nel fatto che, per tre anni, il 100% dei proventi del contrasto all’evasione e all’elusione fiscale sarà incamerato dagli stessi enti locali. L’ impegno sui patti deve sempre accompagnarsi, però, alla consapevolezza che il terreno proprio delle entrate locali è soprattutto quello dei tributi immobiliari (Ici, transazioni immobiliari) e dell’accelerazione del processo di revisione delle rendite catastali. 

* Spi Cgil


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